L’anemia nella mielofibrosi richiede tempo, risorse e attenzione continua, soprattutto quando si rende necessaria la somministrazione regolare di trasfusioni di sangue.
I pazienti che diventano trasfusione-dipendenti si trovano spesso ad affrontare accessi ospedalieri frequenti – nei casi più gravi, anche una volta a settimana – con un impatto significativo sulla qualità della vita.
Come descritto nel precedente approfondimento, a seconda del Centro varia la durata degli accessi, ma può arrivare fino a oltre 7 ore per ogni trasfusione, di cui circa la metà è spesso tempo di attesa.
Dalle interviste condotte nell’ambito del progetto BEAT e dai confronti con i rappresentanti dei pazienti, è emersa con chiarezza una parola chiave per migliorare la gestione delle trasfusioni: flessibilità.
Prima di ricevere una trasfusione, è necessario un prelievo di sangue per i test di compatibilità. A differenza degli esami di controllo, questi test non possono essere svolti presso laboratori locali, ma devono essere eseguiti nella struttura in cui si effettuerà la trasfusione, e al massimo pochi giorni prima della procedura (Figura 1).
In alcuni Centri, i prelievi sono effettuati nei giorni precedenti la trasfusione: questo consente di evitare i tempi di attesa degli esiti il giorno stesso e ridurre la durata complessiva dell’accesso. Tuttavia, richiede al paziente di recarsi in ospedale due volte, soluzione dispendiosa per chi vive lontano.
Anche per altri pazienti – ad esempio in età lavorativa – potrebbe essere vantaggioso concentrare tutto in un’unica volta, anche a costo di attese più lunghe, per ridurre al minimo i giorni di assenza dal lavoro.
In ogni caso, un aiuto concreto può arrivare dall’utilizzo di strumenti gestionali adeguati, che consentano di pianificare appuntamenti a intervalli opportuni, ottimizzare i turni e gestire con maggiore efficienza le risorse come le poltrone per trasfusioni, riducendo così il tempo di permanenza del paziente in ospedale.
Un’ulteriore opportunità è la possibilità di effettuare le trasfusioni in centri trasfusionali dislocati sul territorio – soprattutto qualora non ci siano visite di controllo associate. Ciò significa abbreviare i tempi di viaggio e accedere a strutture generalmente meno affollate, dove la permanenza è spesso più breve. In questo contesto, la parola chiave è collaborazione: solo attraverso una presa in carico condivisa tra centro di riferimento e territorio è possibile garantire continuità e qualità dell’assistenza.
Parlare di presa in carico condivisa non significa solo coordinare ospedali e territorio, ma anche valorizzare tutte le figure sanitarie coinvolte, inclusi gli infermieri.
Gli infermieri hanno un ruolo chiave nella relazione con i pazienti, basata spesso su fiducia e prossimità. Questo li rende una risorsa preziosa sia per gli ematologi sia per i pazienti stessi. In molte realtà ospedaliere, la valutazione integrata medico-infermiere è già una prassi consolidata – basti pensare al triage nei pronto soccorso – ma richiede una formazione continua per essere efficace.
La presenza di infermieri specializzati in patologie specifiche come la mielofibrosi permette di migliorare l’efficienza dei percorsi di cura e rafforzare la relazione di fiducia con i pazienti. In alcune strutture si distinguono già esempi di collaborazione medico-infermieristica strutturata all’interno degli ambulatori dove l’infermiere partecipa attivamente alla valutazione del paziente, non solo dal punto di vista clinico, ma anche psicologico e relazionale e monitora aspetti cruciali come la stanchezza, l’aderenza terapeutica, l’attività fisica e il bisogno di supporto domiciliare.
Dal punto di vista organizzativo, gli obiettivi principali per garantire un percorso di cura efficace sono, da un lato offrire soluzioni organizzative personalizzate, dall’altro ottimizzare tempi e risorse per ridurre l’attesa e il peso degli accessi frequenti (Figura 2). Questi miglioramenti sono rilevanti non solo per i pazienti, ma anche per i loro caregiver, figure fondamentali nel supporto quotidiano.
L’assenza di un caregiver può rappresentare, infatti, un’ulteriore fragilità per pazienti già vulnerabili. Per rispondere a questa esigenza, alcune realtà stanno sperimentando il coinvolgimento di caregiver professionali per supportare il paziente nella gestione degli appuntamenti, nella consegna dei farmaci a domicilio e nel trasporto casa-ospedale.
Tuttavia, l’adozione di tutte queste best practice è spesso ostacolata dalla scarsità di risorse e la loro realizzazione dipende in larga misura dal sostegno di associazioni di pazienti e partner privati.
Oltre a rendere più efficiente il percorso di cura, è fondamentale promuovere un approccio multidisciplinare che coinvolga tutte le figure sanitarie del percorso del paziente e valorizzi le competenze di ciascuno. Solo così è possibile garantire un’assistenza che vada oltre la gestione clinica della malattia, mettendo al centro la persona nella sua totalità, con i suoi bisogni fisici, psicologici e sociali (Figura 2).
Nel prossimo approfondimento ci concentreremo proprio su un aspetto spesso trascurato ma di grande importanza: il supporto psicologico nel percorso di cura della mielofibrosi.